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È in questo periodo che mi viene sempre un po’ di tristezza dentro.
È in questo periodo che amo ancora di più rifugiarmi nella casa di campagna, a Veleia Romana, il mio posto del cuore. Quando senti l’estate finire, quando ti alzi e vai a piedi nudi sul balcone e guardi la campagna avvolta in una nebbiolina bassa e senti i piedi freddi, quando ascolti le ghiandaie litigare con i corvi per i chicchi d’uva (che peccato vedere la vigna così lasciata andare) e l’aria sa di fresco… ecco – dicevo – è in questo periodo che mi viene un po’ di tristezza dentro.
L'appuntamento era fissato per metà estate, quando le amarene e le prugne di Veleia erano pronte per essere trasformate in conserve. Quello era il vero rito dell’anno: la cerimonia che sanciva il passaggio delle stagioni. In quel periodo, le zie (che poi sarebbero prozie) ELIDE, ESTER e TERESA si presentavano sempre puntuali, con grembiuli, cesti e guanti, pronte a dirigere l'operazione con una ferrea organizzazione, come se fossero ufficiali di un esercito benevolo ma inflessibile.
Il lavoro si svolgeva così: gli uomini arrampicati sugli alberi a raccogliere la frutta, noi bambini chini a cercare i frutti caduti a terra – e ogni tanto qualcuno spariva in bocca, sporco e dolcissimo. Zia TERESA al lavandino, le braccia immerse nell’acqua fredda, a sciacquare cestini interi di amarene o prugne, mentre mia mamma e zia ELIDE, sedute su seggioline basse, snocciolavano con dita veloci e le mani macchiate di rosso. La zia ESTER, con la mestola in mano e i capelli raccolti in un fazzoletto colorato, era la regina della cottura: attenta, severa, ma con quel sorriso di chi sa trasformare la fatica in festa.
Per l'occasione, accendevamo la stufa all'esterno, perché nessuno voleva che la cucina diventasse un campo di battaglia. Il vapore dolciastro delle marmellate si alzava nell’aria e si mescolava al profumo dell’erba e della terra calda.
Le zie non perdevano mai l'occasione di raccontare aneddoti e storie, mescolando racconti seri a pettegolezzi sulla famiglia. Spesso si trattava di ricordi di guerra, ma erano sempre belli: raccontavano di balli improvvisati nei fienili, di come avevano conosciuto i mariti in piazza durante le feste, di quella volta che rubarono due pagnotte dal padrone, di quando erano mondine sotto il sole bruciante, o di quando rubavano la frutta nei campi per farci la marmellata per l’inverno. E poi, inevitabilmente, si finiva a cantare (Julio Iglesias, la zia Ester ne era innamorata). Stonate, certo, ma con quell’allegria che scaldava il cuore: le loro voci, sovrapposte e sgangherate, si spandevano per il cortile.
Che a pensarci ora, la felicità era proprio quella cosa lì.
È in questo periodo che mi viene sempre un po’ di tristezza dentro, dicevo. È in questo periodo che mi rifugio nei ricordi, nella campagna di Veleia e nelle zie che sapevano trasformare l’estate in conserve di felicità. È stato proprio in un giorno di fine estate, qualche anno fa, che mi venne un’idea: se loro chiudevano nei barattoli il sole e i frutti, io potevo chiuderci le parole.
Il mio gesto ribelle? Trasformare la tristezza in un barattolo di parole, come le zie facevano con la frutta: perché anche la malinconia, a volte, può diventare dolcezza da conservare. Così che aprirli significhi respirare ancora quell’aria scanzonata e felice. |